Nello sport si mettono in conto le sconfitte. Servono a farti riflettere su cosa c’è stato di utile nella performance e su cosa, invece, bisogna lavorare per migliorarla.
Serve per fare una valutazione delle proprie risorse, dei punti di forza e, al contempo, delle criticità.
Ed è fondamentale possedere gli strumenti per leggerla, altrimenti qualsiasi sconfitta verrà vista come un fallimento. Dando invece alla sconfitta il significato di feedback, ovvero di semplice informazione di ritorno sulla prestazione eseguita, possiamo imparare da una sconfitta più di quanto impariamo da qualsiasi vittoria.
La sconfitta aiuta a crescere: una sua corretta valutazione diventa un potente stimolo al miglioramento, a dare il meglio di se, impegnandosi al massimo, come segno di riscatto.
A caldo la sconfitta ha la violenza di uno schiaffo in faccia, l’umiliazione di un insulto. Specie quando inattesa e imprevista, risulta destabilizzante, disturbante, inquietante, stupefacente. Ti lascia a terra, attonito, deluso, annichilito nell’incapacità di comprendere e reagire.
Vincendo sempre è più difficile farsi domande.
La vittoria dà una felicità inebriante e, spesso, una sorta di delirio di onnipotenza, per cui si è quasi incapaci di ragionare e prendere coscienza del valore dell’impresa compiuta, della capacità (o meno) di proseguire nella stessa direzione e per quanto tempo.
Perdere comporta destabilizzazione: ma allo shock iniziale segue poi la domanda costruttiva del perché.
La vera sconfitta è quella che accettiamo senza porsi domande sul perché è avvenuta; senza prendere coscienza dell’accaduto. È più semplice e meno impegnativo accogliere la sconfitta come una fatalità ineluttabile, come un destino inevitabile: ma è una rinuncia a sfruttare le ricchezze che la sconfitta offre.
È più comodo cercare scuse, abbracciando la cultura dell’alibi: dire la responsabilità è di chiunque, non mia, è una scelta di autotutela psicologica che mette al riparo dalla possibilità di metterti in discussione e, quindi, anche da quella di migliorarsi.
Io rifuggo la cultura dell’alibi, ho imparato che vinco, realizzo imprese importanti perché nella mia vita sportiva ho perso.
Le vittorie confermano il mio lavoro, la mia tenacia, la mia passione.